Il 27 ottobre 1906 - per la prima volta - la firma di un accordo tra la Fiom e la direzione dell'impresa torinese
Itala si concluse con il riconoscimento (che, oggi, definiremmo giuridico) delle Commissioni interne alla fabbrica. Esse erano nate - operando, fino a quel momento, in semiclandestinità
[1] - nel 1904 all'epoca dello sciopero generale proclamato dopo gli, ennesimi, eccidi di minatori e contadini di
Buggerru, nel cagliaritano, e di Castelluzzo, nel trapanese, e (...)"
si trattava di organismi spontanei, senza esistenza legale, che si costituivano e si disfacevano a seconda dei bisogni della lotta: comitati di sciopero o comitati d'azione piuttosto che comitati d'azienda (...)".
[2]
La storiografia ufficiale fa risalire a quella data la nascita del sindacalismo
moderno quasi che la data di nascita del movimento di emancipazione dei lavoratori avesse bisogno di una sorta di
certificazione notarile dando per scontato che, prima, non vi fosse nulla o quasi. Ed è paradossale constatare che - gli esclusi di ieri - siano, oggi, i più accesi sostenitori
dell'esclusione dei diritti sindacali al sindacalismo di base.
Non starò qui a dilungarmi sulla
genesi del movimento operaio - che ha un
travaglio assai complesso - limitandomi a rilevare la grave carenza informativa (soprattutto in ambito scolastico) in merito dal momento che il periodo storico che va dal 1864 (prima internazionale) al 1892 (data di nascita del PSI) è un terreno di ricerca storica riservato a, pochi,
addetti ai lavori.
E non sono pochi coloro i quali - Pansa docet - scrivono sciocchezze (chiamiamole così).
Scopo del mio intervento è quello di aprire un dibattito ed una riflessione sul movimento dei Consigli di fabbrica che spaventò così tanto il padronato (e i leader socialisti come Turati) da spalancare la strada - dapprima con la violenza poi con una parvenza di legalità - ai fascisti.
Ho già accennato, in estrema sintesi, alla
lunga marcia delle commissioni interne tese ad ottenere il
riconoscimento giuridico dalla controparte padronale ma i veri problemi connessi al grado di autorganizzazione operaia - non sempre (e non tutta) disposta a sobbarcarsi il peso delle proprie azioni - si delineano nelle convulsioni sociali del primo dopoguerra: 1919/1922 .
La cronologia dei fatti è nota. Nei primi giorni di settembre 400.000 operai di tutta Italia, in risposta alla reazione padronale che giunse fino alla serrata, occuparono le fabbriche. Torino e Genova furono con Milano i centri in cui il fenomeno dell'occupazione assunse aspetti particolarmente rilevanti ed interessanti dal punto di vista della organizzazione della lotta. È infatti proprio in questo contesto e in questi centri (Torino e Genova) che si affermò il movimento dei Consigli di Fabbrica.
Il Movimento era sostenuto dalla sezione socialista di Torino, dal gruppo dell'"Ordine Nuovo" di Gramsci e, con le debite differenze di impostazione ideologica, da un gruppo di libertari torinesi.
Il movimento dei consigli si pose sin dall'inizio in posizione di netto antagonismo col sindacato (FIOM), il quale da parte sua considerò con estrema diffidenza questo tentativo di democrazia operaia che avrebbe potuto incrinare il suo potere di controllo sulla massa e giunse ad una sua completa condanna nel Congresso di Genova del maggio 1920.
Già nell'aprile, infatti, Torino fu al centro di uno sciopero per il riconoscimento dei Consigli di Fabbrica, e nonostante la pesante sconfitta dovuta all'abbandono da parte dei sindacati del movimento operaio torinese, il problema del controllo operaio si impose col sorgere delle nuove lotte. Nella sola Torino il movimento di occupazione coinvolse ben presto 100.000 operai, che pur continuando nei primi giorni l'ostruzionismo secondo le disposizioni federali, si apprestavano alla vigilanza armata e alla organizzazione interna per dimostrare che "(...)
anche privi della direzione padronale, gli operai sanno disimpegnarsi nel funzionamento accurato dell'officina (...)".
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Risulta quindi evidente che il Consiglio di Fabbrica intendeva essere un nucleo di organizzazione del lavoro, un organismo attivamente inserito nel processo produttivo, superando i limiti di una attività esclusivamente politica o rivendicativa. I compiti che quindi il Consiglio di Fabbrica si assumeva erano molteplici. Da un lato, sul piano politico, l'impegno era di comunicare l'esperienza dei Consigli alle altre fabbriche occupate e di coinvolgere nella lotta le altre categorie di lavoratori, organizzando inoltre la resistenza armata. D'altro canto, su di un piano più propriamente economico, doveva organizzare la produzione su basi nuove che garantissero il funzionamento di un sistema di gestione operaia, assicurando il coordinamento della produzione, il rifornimento di materie prime e gli scambi del materiale. Dopo i primi giorni di occupazione, infatti, incominciarono a svolgere le loro funzioni, presso la Camera del Lavoro, i vari comitati organizzatori: quello Buoni, sussidi e cucine, quello di Scambi e Produzione e quello di Compra e Vendita che affidava ad una unica cassa le riscossioni per le vendite dei prodotti e i pagamenti per gli acquisti. Alla base della disciplina riguardante l'attività che derivava dalla gestione dell'industria, erano i Consigli di Fabbrica i quali delegavano determinate funzioni ai singoli componenti del loro comitato esecutivo. È opportuno ricordare che riuscirono a mantenere discretamente alto il livello di produzione, se si pensa che ad esempio alla FIAT centro si producevano 37 macchine al giorno contro le 67-68 dei tempi normali. Ma l'organizzazione economica non era certo completa e totalmente efficiente dato che quando il movimento di occupazione si avviò alla fine si pose il problema del pagamento del lavoro compiuto dagli operai durante il periodo di occupazione. "
A Torino in tutte le fabbriche si è lavorato. Poco i primi giorni, molto nei successivi. In alcune officine si è superata la percentuale media della produzione. Per chi si è lavorato? Gli operai, piuttosto che aver lavorato 20 giorni per i padroni sono disposti a distruggere tutto ciò che hanno prodotto" [4].